TESTIMONIANZE DI DONNE MONZESI

LA DONNA

DALL’ANTIFASCISMO - ALLA RESISTENZA - AI GIORNI NOSTRI

A cura della Commissione Scuola e Cultura dell’ANPI di Monza

Queste interviste sono state raccolte per il quarantesimo anniversario della lotta di Liberazione.

Le abbiamo raccolte in un elaborato dattiloscritto, e presentato con la partecipazione delle protagoniste, ospite Gisella Floreanini, in un bel pomeriggio dell'ottobre 1983, al NEI di Monza.

Per chi come me ha vissuto quella giornata non se la dimenticherà mai. Abbiamo avuto la fortuna di parlare con delle donne tanto importanti e tanto umili come spesso accade quando si è alla presenza di persone speciali.

Milena Bracesco
testimonianza di raccolta da
Se i muri di quell'osteria potessero parlare... Maria Farina Bracesco Milena Bracesco
Un'infanzia senza spensieratezza Eugenia Farè
Rifiutarono un caffè dal sapore fascista Maria Galetti vedova Robecchi
Augusta Merati
Milena Bracesco
Il castigo peggiore quando ero bambina: non andare ai comizi Paola Giannella Giovanna Meroni
Da Hartheim, tristissimo castello di eutanasia, il suo uomo non fece più ritorno Maria Parma Milena Bracesco
'SOCCORSO ROSSO' è stato il suo campo d'azione nella lotta partigiana Matilde Parma Milena Bracesco
Appena adolescente, diffondeva la stampa clandestina Elisa Pezzotta Giovanna Meroni
Il sindacato è stato per lei una scuola di vita Maria Riva Biffi Franca Meneghini
L’unica volta che sparò si spaventò moltissimo Angela Ronchi Aurora Belli
Un lungo pellegrinaggio per cercare il figlio diciassettenne Elena Vicari Giovanna Meroni
Seri granda, forta e spavalda Maria Vismara Silvia Lalia

Maria Farina Bracesco


“Se i muri di quell'osteria potessero parlare...”
Era una cellula del partito comunista e il centro di collegamento dell’organizzazione clandestina dove passarono tutti i partigiani, i vivi e i morti. Maria, tra un piatto e l’altro, collaborava come messaggera.

È una donna minuta, intelligente, dinamica. Negli occhi le si legge il profondo amore che nutre per suo marito Carlo. Da ogni atteggiamento, da ogni sua parola, traspare la forza, quella sua forza silenziosa ma ben determinata che le è servita, e ancora le serve, per restare accanto a suo marito, Carlo Bracesco, antifascista, combattente, militante comunista, consigliere comunale e, attualmente Presidente Onorario dell'Anpi di Monza.
    Zia, raccontami un pò della tua vita.
    “Ne ho tante di cose da dire che non so da che parte cominciare. Sono sposata da 53 anni con tuo zio Carlo, tanti vero? Avevo 18 anni quando lo incontrai per la prima volta, ora ne ho 73. Ci siamo conosciuti al “luna Park”. Dei fascisti lo inseguivano. Per sfuggire loro, mi si è avvicinato invitandomi ad entrare nel “Castello incantato”. Quel ragazzo magro e dall’aspetto sofferente, mi ispirò simpatia e fiducia (era libero da pochi giorni, aveva subito violente percosse dalla polizia fascista) e, accettai l’invito. Questi individui ci raggiunsero all’interno del locale e si rivolsero a me con tono perentorio – Signorina, ma lei sa chi è questo signore? - - È il mio fidanzato – risposi. Fu una risposta spontanea la mia, fu la mia prima rivolta al sistema. Lo salvai da un ennesimo pestaggio.
    -Raccontami qualche altro fatto.
    - Ci siamo sposati nel 1930 e fino al ’36 furono anni tranquilli.
    Carlo aveva limitato molto la sua partecipazione alla vita politica. Dopo l’arresto, si era dedicato al lavoro e alla nostra famigliola. Ma quando il Duce venne a Milano nel ’36 , corse il rischio di essere arrestato. Ogni schedato doveva essere messo in carcere per prudenza. Grazie all’intervento di un amico che garantì per lui ed al fatto che avevo da pochi giorni partorito il nostro secondo figlio Adriano, fu lasciato libero.
    Ricordo che nel luglio del 43, dopo il discorso che Gianni Citterio fece alla cittadinanza monzese, iniziarono le mie vere preoccupazioni di moglie di un antifascista. Il corteo che accompagnò Citterio in piazza era partito dalla nostra osteria, (cellula clandestina del partito comunista, intitolata ad Angelo Farina). In seguito a ciò Carlo e i ragazzi dovettero, per ragioni di sicurezza e dietro parere dello stesso Gianni Citterio, lasciare la città. Si trasferirono in Brianza, affidando a me la conduzione della trattoria. Ogni sera dopo la chiusura del locale, prima, e qualche volta durante il coprifuoco, raggiungevo in bicicletta la mia famiglia a Velate, dove si era rifugiata presso parenti. Erano percorsi fatti pedalando il più velocemente possibile, erano percorsi pieni di paura e di ansia. Qualche volta avevo la fortuna di essere accompagnata per un tratto da qualche amico. Poi, sempre per sfuggire alle ricerche dei fascisti, ci ritirammo tutti a Domaso, sul lago di Como. Era una vita da sfollati, dormivamo tutti in una stanza. Ma questa sicurezza durò poco. Si dovette traslocare anche da li perchè delle persone ci avvertirono che non erano più posti sicuri. Stanchi di essere dei vagabondi rientrammo a Monza, facendo circolare le voci che il Carletto era dovuto andare in convalescenza sul lago dopo una brutta operazione allo stomaco.
    Lo stratagemma funzionò . Nessuno venne più a cercarci fino alla primavera del 45.
    Intanto il mio Carletto continuava a collaborare con i gruppi partigiani praticamente indisturbato. La nostra trattoria era un punto di collegamento determinante per tutta l’organizzazione clandestina. Arrivò la primavera del 45. Un giorno, dopo un cessato allarme, avevamo riaperto da poco le porte dell’osteria. Una porta dava sulla strada e l’altra sul cortile interno. Due individui sospetti, in borghese entrarono contemporaneamente da entrambi le porte. Chiesero del Carletto “il comunista”, chiesero dove fosse e chi era. Io ero come al solito in cucina. – Adesso me lo portano via – pensavo . Lo hanno scoperto -. Continuavo meccanicamente a lavorare, ma la mia preoccupazione aumentava man mano che il tempo passava. Carletto con i due poliziotti era chiuso nel salone da un bel pò e io non sapevo niente, non potevo aiutarlo in nessun modo. Fortunatamente la mente creativa di mio marito funzionò anche quella volta. Fingendosi un sempliciotto, un personaggio molto sprovveduto e ignorante, fuorviò i sospetti dei due poliziotti. Quando verso mezzogiorno venne in cucina dicendomi – tutto bene, prepara per altre due persone – ho tirato un grosso respiro di sollievo. Era andata! Servii in tavola una zappetta bianca per mio marito e uova per loro”.
    Tu sapevi cosa faceva lo zio?
    “Tutti i partigiani prendevano come punto di riferimento la nostra trattoria. Li ho conosciuti tutti. Ricordo Robecchi, Elisa Sala, Gianni Citterio, Brambilla, Amedeo Ferrari e l’avvocato Scali. Ricordo tuo padre con un coraggio da leone, sempre attivo e presente dappertutto.
    Il mio compito era quello di riferire messaggi e consegnare i pacchetti che mi venivano lasciati. Quando traslocammo, dimenticammo sotto il tappeto in saletta tutti gli incartamenti della cellula. Che rischio abbiamo corso!
    Un altro episodio che mi viene in mente è quando vennero a perquisire la nostra osteria e trovarono del materiale pronto per la spedizione in montagna, diretto ai nostri partigiani. C’erano calze, maglie, cappelli, asciugamani, tutta roba che ci era stata donata da una ditta monzese per mezzo di Feliciano Gerosa e di mio marito. Ci fu un attimo di panico. Carletto pensò di fuggire, ma io riuscii a convincerlo a restare e affrontare con naturalezza la situazione. Ancora una volta ci andò bene. Dicemmo che era merce per la “borsa nera”. Ci cedettero o forse finsero di crederci. Forse avevano capito che il loro momento stava per finire. Siamo stati fortunati! Se penso ai rischi corsi non so proprio come abbiamo fatto a salvarci la pelle.
Testimonianza raccolta da Milena Bracesco
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Eugenia Farè


“Un'infanzia senza spensieratezza”
Ancora bambina ha dovuto confrontarsi con adulti che lottavano e morivano per la libertà e la democrazia. E la scuola? Era un vivaio di formazione fascista ma ogni tanto incontrava una “pianta diversa”

Eugenia Farè, nata a Milano il 27 marzo 1921. Nel 1929 con la madre e lo zio Enrico si è trasferita a Lissone e successivamente a Monza. Qui ha frequentato il Ginnasio – Liceo Classico “Zucchi”, ha svolto la sua attività di insegnante presso la scuola media “Zucchi”. La sua attività politica: prima e dopo il ’45, è stata Consigliere comunale per 18 anni per il P.S.I. e per altri 3 anni per il P.C.I.
Attualmente è, dal 1968, preside di una scuola media a Lissone.

Prima del 1940
Confesso che sono piuttosto imbarazzata perché non credo che quanto mi accingo a dire rappresenti qualcosa di nuovo o di eccezionale. Non so neppure se altre amiche, altre donne, si riconosceranno nelle mie parole. La mia è un’esperienza personale e forse per chiarire meglio il mio pensiero occorre una premessa.
Sono nata e vissuta in una famiglia un po’ diversa dalle altre che mi vivevano accanto. La mia infanzia non è stata felice se con questo termine si intende spensierata, gioiosa e completamente serena.
I miei primi anni sono trascorsi nell’incubo delle perquisizioni notturne dei fascisti, degli arresti di mio zio che viveva con noi, prima e dopo la morte di mio padre. Per sottrarmi a questi, che oggi si chiamerebbero “traumi”, i miei genitori mi misero per un paio d’anni in collegio dal quale uscii per andare a vivere a Lissone. Non fu divertente né l’uno né l’altro soggiorno. Non ero iscritta all’Opera Nazionale Balilla e perciò la mia maestra mi mise in un banco isolato. Non si frequentava la chiesa e perciò non erano molte le compagne di classe che mi frequentavano. Però, nonostante ciò,mi sentivo fortunata perché vivevo accanto ad una persona che mi trattava da adulta. Parlavo con i suoi amici che venivano da Milano, leggevo, allora, libri di cui altre bambine ignoravano l’esistenza.
A Monza le cose cambiarono un poco, non molto. Continuammo a vivere senza molti amici, ma i pochi erano per me persone favolose. Erano i vecchi socialisti Motta, Crippa, Piazza, Fumagalli, a cui più tardi si aggiunse l’on. Riboldi, comunista, quando uscì dal carcere. Da loro ascoltavo parole che a scuola erano proibite, conoscevo vicende di cui non si poteva parlare, ma che mi aiutavano a capire il mondo in cui vivevo e a sottrarmi al condizionamento della stampa e della scuola,fasciste o fascistizzate.
Tutto sommato, mi consideravo una privilegiata, anche se la mia vita non era simile a quella dei miei coetanei, ai quali (l’ho saputo di recente) incutevo una certa soggezione, perché mi sentivano diversa.
Quando alla fine del liceo ebbi qualche insegnante non propriamente in linea con i tempi, mi parve di fare una scoperta nuova. Mi bastava una sfumatura, l’uso di un aggettivo, un commento appena accennato per riconoscere un amico, uno “non in linea” con la politica del tempo. Purtroppo anch’io, come tutti, allora ero iscritta alla Gioventù Italiana del Littorio perché ad un certo punto, per evitare diserzioni, era automatica l’iscrizione. Si pagava la tessera insieme con le tasse di frequenza alla scuola. Ed allora bisognava avere una certa fantasia per sottrarsi all’obbligo delle adunate, delle sfilate in divisa. A date fisse anche gli insegnanti erano costretti a indossare la divisa durante le lezioni e, poiché non tutti erano dei “fusti”, mi liberavo dell’atmosfera cogliendo gli aspetti comici.
La scuola era aperta a maschi e femmine, ma qualcuno sosteneva che noi ragazze avremmo dovuto restarcene a casa a fare le casalinghe, le sartine, magari le dattilografe. Ricordo, ad esempio, un tema assegnato per concorso, che dava la misura del concetto che si aveva della donna: “Oggi sei figlia e sorella, domani sarai sposa e madre, ecc.”
Era la casa il posto della donna. Non per nulla era stata istituita la tassa sul celibato, per gli uomini fino ai cinquant’anni. Non si concepiva che la donna si sottraesse volontariamente al compito di essere moglie e madre. E soprattutto madre prolifica.
Io la pensavo diversamente e mi irritava questa sottovalutazione della posizione della donna, delle sue capacità, del suo diritto a partecipare alla costruzione della società. In queste mie convinzioni mi incoraggiava una serie di letture e di discussioni che facevo con gli amici di casa e, soprattutto l’esempio e le parole di mia madre.

La guerra.
Finivo il liceo quando scoppiò la guerra. Ricordo che poco prima, nella primavera, una mattina trovai la scuola quasi deserta perché i miei compagni stavano partecipando ad una manifestazione, chiaramente pilotata, a favore dell’intervento.
In classe eravamo in poche ragazze e fra queste una, con la quale ero diventata amica dopo la promulgazione delle leggi razziali. Era figlia di una donna ebrea. C’era anche l’insegnante, l’unica donna del corpo docente, esclusa quella di educazione fisica, la quale ci chiese perché non avevamo partecipato alla manifestazione. Risposi: “Perché la guerra non mi piace”; rimase zitta, ma anni dopo la ritrovai ad una manifestazione di insegnanti democratici. Era la stessa insegnante che al suo arrivo al Liceo aveva provocato il commento di un professore, valentissimo professionalmente: “Adesso ci mancano anche le donne!”. Era questo l’insegnante che, non ricordo per quale episodio di “indisciplina” ci aveva minacciati così: “I miei Soldati che non mi obbedivano li mandavo sull’Amba Aradam”, riferendosi alla guerra per la conquista dell’Abissinia.
L’Università mi aprì un mondo nuovo, diverso. Il clima della guerra, anziché rendere più passivi gli antifascisti veri, aveva accentuato l’avversione al regime ed anche molti giovani che collaboravano al giornale ”Libero moschetto” avevano assunto posizioni di fronda. Ne conobbi alcuni che mi proposero di lavorare con loro, ma preferii limitarmi ad operare a Monza.
A Monza intorno al 1942 si era formato il Fronte nazionale antifascista. Nello studio dello zio (allora in via Parravicini l’attuale via Gramsci,) dove lavoravano anche Ezio Riboldi e Oreste Pennati, si incontravano antifascisti di varie posizioni politiche. Mi chiesero una certa collaborazione, sia pure modesta e me ne sentii profondamente onorata, soprattutto in quanto donna. In fondo non era molto quello che dovevo fare: raccogliere e trasmettere messaggi in codice, battere a macchina qualche appunto molto “innocente” e accessibile solo agli interessati, ecc. Non mi pareva che ciò bastasse e così quando nel 1943 si formarono i Gruppi di Difesa della Donna e di Assistenza ai Volontari della Libertà, vi aderii subito, invitata da una amica –Lina Riva - che lavorava nel negozio Carnelli e che teneva i contatti con Milano. A mia volta formai una piccola cellula con alcune altre giovani monzesi e iniziammo il lavoro.
Non credo sia necessario dilungarsi molto per chiarire gli obiettivi del movimento. Nessuna preclusione ideologica, purchè ci fosse concordanza su alcuni obiettivi di fondo, quali una diversa concezione della posizione della donna nella società e il riconoscimento dei suoi diritti di parità assoluta con l’uomo e di partecipazione alla vita politica e sociale; rifiuto del nazifascismo e della guerra; una nuova società che doveva nascere da una costituzione diversa; non si discuteva ancora se dovesse esserci una monarchia costituzionale o una repubblica.
Un giorno mi incaricarono di prendere contatti con un rappresentante del mondo cattolico. Mi diedero il nome della via, mi descrissero la casa, mi dissero a quale piano sarei dovuta salire. Mancava il nome, e ciò era normale. Ci andai, bussai e mi trovai davanti Emilia Mosca, una compagna di Liceo. Tutto da rifare? Decidemmo lì per lì che non era il caso. Ognuna era impegnata a mantenere il segreto, in caso di arresto, almeno per un certo periodo, tanto da consentire al gruppo di riorganizzarsi.
Ogni tanto compivamo qualche gesto “dimostrativo”.
In occasione dell’8 marzo del 1945 andammo, con mezzi diversi e per vie diverse, al cimitero a deporre fiori sulle tombe di fucilati o di vecchi antifascisti. Con me quel giorno c’era Ida Citterio e, se ben ricordo, Iride Messa, la dattilografa di Riboldi, che collaborava con noi. Ricordo che Ida, la quale forse già sapeva che il fratello Gianni era morto, mi disse: “Se Gianni non c’è più, spero che anche sulla sua tomba oggi depongano dei fiori.” Quella volta attraversammo un momento di perplessità: i fiori legati con un nastro tricolore cui era appuntato un cartoncino con la nostra sigla, attirarono l’attenzione di due tizi che si avvicinarono. Non successe nulla.
Nel 1944, in occasione degli scioperi del marzo, fu arrestato mio zio, subito rilasciato dopo un interrogatorio, ma furono arrestati anche Prina, Arosio, Guarenti e successivamente Gambacorti Passerini. Tutti avevano famiglia. Mogli e sorelle si misero in contatto con noi. Ricordo in modo particolare Elena Mauri Prina che, dopo il trasferimento del marito a S. Vittore, riuscì a stabilire qualche contatto grazie all’aiuto di un secondino per cui ci pervenne qualche messaggio. Fu la signora Elena che ci comunicò per prima, nel luglio, la notizia della fucilazione. L’aveva appresa da un’altra vedova che in quei giorni era a Carpi. Non rinunciò a collaborare, anche se doveva provvedere da sola alle tre figlie, e continuò anche dopo la Liberazione.
Nel frattempo continuavo gli studi universitari. Non mi potevo permettere il lusso di perdere anni perché la mia famiglia aveva bisogno del mio lavoro. Cercavo di dare tutti gli esami nella sessione estiva per non indossare la sahariana nera delle giovani fasciste. D’estate bastava una giacca bianca e una gonna nera, all’ultimo momento mi mettevo attorno al collo il fazzoletto azzurro, ed era fatta. Debbo dire che dopo il 1943 all’Università Statale i professori chiudevano un occhio ed alcuni, come Antonio Banfi, li chiudevano entrambi.
Dopo la laurea nel 1944, riuscii ad avere una supplenza al Ginnasio Zucchi. Qui incontrai Luigi Panzeri, Ugo Cappelli, Luigi Rodelli, Giulia Ferrario, tutti antifascisti convinti.
Giulia Ferrario fu arrestata e atrocemente torturata a Milano. Luigi Panzeri, comunista, mi chiese un giorno di entrare a far parte del Comitato di Liberazione Nazionale della Scuola e a mia volta convinsi a collaborare anche una collega, Angela Maria Amirante, che aveva buoni motivi per essere antifascista: la madre era ebrea. All’inizio del 1945 due miei scolari di quinta ginnasiale furono arrestati con altri giovani in quanto facevano parte del Fronte della Gioventù (fondato da Eugenio Curiel, fucilato dai fascisti, medaglia d’oro della Resistenza) organizzato da Piero Gambacorti Passerini. Quando furono rilasciati e ripresero le lezioni mi chiesero di poter venire a casa mia. Volevano avvertirmi che erano stati costretti a fare il nome dei loro insegnanti, e quindi anche il mio. Li rassicurai: non lavoravo con il Fronte e quindi non sarei stata coinvolta nella faccenda. Quanto al resto, il nome Farè era abbastanza noto ai fascisti monzesi per i decenni di vita politica di mio zio, e quindi non rappresentava una scoperta.
E venne il 25 Aprile, anzi per Monza il 26. Tutto sarebbe cambiato.

Dopo il 1945
Era venuto il momento di fare scelte precise per me. Non potevo rinunciare all’attività politica e scelsi l’iscrizione al Partito Socialista di Unità Proletaria, nato dalla fusione del vecchio Partito Socialista Italiano e del Movimento di Unità Proletaria. Non fu una scelta difficile e non fu dettata da ragioni affettive. Che ne facesse parte anche mio zio non importava, ero convinta di quello che facevo. A questa scelta avevano contribuito le parole di compagni monzesi e non monzesi, tra cui Lelio Basso che durante la clandestinità avevo avuto modo di conoscere nello studio dello zio.
La mia attività continuò su diversi binari: attività professionale come insegnante, attività politica e di partito, attività amministrativa come consigliere comunale, ma non dimenticai il movimento femminile. I gruppi di Difesa si trasformarono nell’ Unione Donne Italiane dove mi impegnai finchè mi fu possibile, a Monza e a Milano, dove incontrai e ritrovai amiche come Vera e Rita Grattarola, Elena Prina, Maria Rizzardi, Elena Citterio, Teresina Gelosa, ecc.
Venne anche il momento di una grave crisi politica: la scissione del PSI nel quale non mi riconoscevo più e il passaggio al risorto PSIUP nel quale militai fino allo scioglimento. Del resto non era nato per durare, ma solo come momento di passaggio.
Infine l’iscrizione al Partito Comunista Italiano.

Oggi.
Qualcuno mi ha chiesto cosa faccio oggi. La vita politica attiva mi è diventata difficile, il che non esclude la mia disponibilità per quanto mi è possibile.
Continuo a vivere nel mondo della scuola, che mi ha dato in fondo molte soddisfazioni. Di quanti allievi sono rimasta amica!! Alcuni me li sono ritrovati accanto durante tante lotte politiche, altri no; ma senza falsa modestia sono sicura di aver seminato qualcosa.
Se ripenso agli anni passati e confronto la situazione della scuola di allora con quella di oggi, credo di poter affermare che i primi scossoni al vecchio sistema autoritario, nozionistico, paternalistico, li abbiamo impressi noi.
Poi il 1968 ha decisamente modificato la situazione. Ma c’è anche il rischio che, se altri non continuano l’opera, si ritorni indietro. Per questo rimango.
Per quanto riguarda il mondo femminile, i primi passi verso la soluzione di tanti problemi sono stati fatti grazie ai Gruppi di Difesa della Donna e dell’UDI. Poi è venuto il femminismo che ha accelerato i tempi, ma anche in questo campo nessuna conquista è mai definitiva e bisogna continuare a lavorare.
In fondo, la Resistenza continua.
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Maria Galetti vedova Robecchi
Augusta Merati


“Rifiutarono un caffè dal sapore fascista”
Facendosi coraggio a vicenda , trasportavano in tram borse misteriose a Cantù. Quando Maria seppe che il marito era morto a Dachau, svenne.

Maria Galetti vedova Robecchi, 74 anni
Augusta Merati, 59 anni
cugine, inseparabili nella vita di tutti i giorni e, da sempre unite da ideali comuni.

Maria si rivolge alla cugina: “Ti ricordi Augusta nel ’44 quando siamo andate a Milano in tram per cercare tuo fratello al comando fascista in Questura”?
Augusta: “È iniziato tutto la sera del sei gennaio ’44. Abbiamo avuto inaspettatamente la visita delle “SS” accompagnate dai fascisti di Muggiò. Su loro indicazione i tedeschi cercavano i miei due fratelli. Io ero giovane , avevo vent’anni, ma mi ricordo tutto come se fosse successo ieri. Hanno iniziato subito a cercare ovunque, rovistando in tutti i cassetti e in tutti gli armadi. Cercavano materiale antifascista. Dalle scale sentii arrivare mio fratello Attilio. Era stato all’oratorio del paese, stavano facendo le prove di uno spettacolo. Mio fratello entrò in casa con una pistola puntata alla schiena. Gli fecero qualche domanda e poi quaso subito lo portarono via. Il giorno dopo io e mia cugina Maria girammo tutti gli uffici di Monza , e di Milano e poi di nuovo a Monza per avere sue notizie. Scoraggiate e tristissime eravamo sedute nel tram che ci riportava a Monza di ritorno da Milano . I nostri occhi arrossati dal pianto incuriosirono un signore che ci chiese cosa ci fosse successo. Dopo avergli raccontato i fatti, questo signore, probabilmente fascista, ci accompagnò di persona alle carceri di Monza. Per risollevarci un pò ci offrì anche un caffè che noi rifiutammo. Attilio era veramente alle carceri di Monza. Rimase in quella cella per altri otto giorni e poi lo costrinsero ad arruolarsi volontario nell’esercito regolare, da dove in un secondo tempo fuggì per darsi clandestinamente all’organizzazione partigiana che operava in montagna.”
    E voi avete fatto qualche azione?
    Maria : “Si, eravamo sempre assieme noi due, però nessuna di noi conosceva il contenuto delle borse che trasportavamo in tram.”
    “Portavamo queste borse a Cantù. Ricordo che in uno di questi viaggi dovevamo consegnare le borse ad un certo “Colombera”. Arrivate a Cantù , chiedemmo a una signora che ci era venuta evidentemente in contro , l’indirizzo di questo signore e lei ci mise in guardia. La notte precedente – ci disse - c’era stata una sparatoria e, i partigiani che cercavamo noi erano fuggiti. Il mio Robecchi mi aveva dato come segno di riconoscimento mezza lira di carta. Questa signora tolse dal suo borsellino l’altra metà della lira e, dopo aver verificato che combaciassero perfettamente, ritirò le borse.”
    Cosa c’era nelle borse?
    “C’erano dei volantini e delle bombe a mano, ma noi l’abbiamo saputo dopo.”
    Maria, avevi paura?
    “cristo!”
    E tu, Augusta?
    “Avevo paura perchè sapevo quello che facevo.”
    Perchè lo facevate?
    “Eravamo contrarie ai fascisti e ai nazisti. Cercavamo di aiutare quei poveri ragazzi che dovevano scappare e nascondersi nelle cascine, dormire nei fienili per non essere fucilati, per non correre il rischio di essere spediti nei campi di sterminio nazisti. Tra noi donne ci si radunava ogni tanto con i nostri figli, ci si consolava a vicenda e ci facevamo coraggio. Ricordo che la mia vecchia mamma Pina faceva il pane giallo da dare ai nostri piccoli. Non c’era quasi niente da mangiare, solo polenta e pane giallo. Con le tessere annonarie non si riusciva a sopravvivere. Ci aiutavamo l’un l’altra. I signori, invece avevano tutto: il pane bianco, la carne; noi niente.”
    Come vivi oggi Maria?
    “Vivo discretamente. Sono sola, con la pensione minima tiro avanti senza troppi problemi.”
    Perchè sei sola?
    “Perchè sono vedova, mio marito lo hanno portato in un campo di concentramento in Germania e non è più tornato. Ho sposato i due figli, ognuno ha la sua casa.”
    Come vedi la società oggi?
    “La vedo non troppo bella. I giovani non hanno rispetto per i vecchi, anche se la colpa non è tutta loro. È colpa della falsa educazione che hanno ricevuto nelle scuole. Non si insegna “la Resistenza”. Io ho rischiato molto per avere una società migliore ma mi accorgo che i nostri sacrifici non hanno avuto ricompensa. Il sacrificio di mio marito che ha dato la vita e lottato per un buon avvenire non ha ancora dato i suoi frutti.”
    Come vedi i tuoi nipoti?
    “Li vedo sani. Sono cresciuti sapendo, dando un giusto valore al sacrificio del nonno.”
    Allora c’è da sperare che ci siano altri giovani come i tuoi nipoti?
    “Speriamo, ma ho paura che ce ne siano pochi.”
    Augusta, quanti figli hai?
    “Due, un maschio ed una femmina. Non sono preoccupata per loro perchè la pensano come me. Sono preoccupata per il mondo che li circonda, pieno di pericoli, droga e malcostume.”
    Voi avete già fatto e dato molto per questa società....
    “Siamo pronte ancora a rimboccarci le maniche, anche se siamo vecchie. Se c’è qualche cosa che possiamo fare ancora, lo facciamo.”
    Maria dice: “Aspetta.... Devo ancora dirti di quando hanno portato via mio marito!”
    Quando lo hai visto per l’ultima volta?
    “Era la festa del paese. Mi ha salutata dicendomi che andava da Enrico Bracesco a Monza. Non l’ho visto mai più. Dopo cinque giorni ho ricevuto una cartolina e la sua bicicletta portata a mano da un signore. Sulla cartolina c’era scritto: - non dire niente a questo individuo , mi portano via. - Dopo qualche giorno sono andata a Milano, sempre con l’inseparabile Augusta, prima alle carceri di San Vittore, poi allo scalo Farini, a cercare su tutti i vagoni ferroviari in partenza per la Germania il mio Robecchi. Non c’era. Siamo tornate a casa disperate, io continuavo a piangere. In seguito mi arrivò un’altra cartolina dove mi si diceva che il mio Robecchi era a Bolzano. Poi più nulla fino alla fine della guerra. Cominciavano ad arrivare in Italia i primi reduci dai campi di sterminio tedeschi. Un giorno andai all’ospedale di Niguarda a Milano con la foto di mio marito per cercarlo. Chiedevo, chiedevo, ma niente da fare, nessuno lo conosceva, poi una suora mi diede la terribile notizia. Dai registri risultava che Robecchi Michele di Muggiò era morto a Dachau, svenni.
    Maria è tutt’ora attivista nel partito Comunista e fa parte del Consiglio dell’Anpi di Muggiò.
Testimonianza raccolta da Milena Bracesco
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Paola Giannella


“Il castigo peggiore quando ero bambina: non andare ai comizi”
Quindici anni di interrogatori nelle questure ed i lunghi periodi di confino le sembrano poca cosa.

Questa è la testimonianza rilasciata da una donna di 81 anni che fece la resistenza al fascismo fin dal suo primo apparire. La donna è PAOLA GIANNELLA, nata a Monza nel 1902, conosciuta anche come moglie di Amedeo Ferrari uno dei fondatori del Partito Comunista Italiano monzese. Ecco il suo curriculum vitae quale appare dai documenti ufficiali:

Arrestata nel 1927 e condannata nel 1928 ad un anno di reclusione per attività antifascista e per appartenenza al partito comunista; scontata la pena, viene arrestata una seconda volta dalla Questura di Monza per “Soccorso Rosso”; ritenuta elemento pericoloso viene deferita al “Tribunale Speciale” e condannata a due anni di confino a Lipari; nuovamente arrestata nel 1932 le vengono assegnati altri cinque anni di confino da scontare a Ponza e poi a Borre in Sardegna.
Le fredde dichiarazioni burocratiche non lasciano certo trasparire quelli che sono stati i sentimenti di questa donna che crede di aver fatto e sofferto poco per la causa.
Paola Giannella infatti parla serenamente di dieci-quindi anni della sua vita durante i quali venne sballottata per le questure e i luoghi di confino d’Italia. Racconta la sua storia con vivacità seguendo un filo conduttore molto preciso, il bel viso intelligente illuminato dal sorriso.
“A sedici anni ero socialista (divenni comunista nel 1922) e partecipavo ai comizi e alle assemblee. Ai comizi mi piaceva andare fin da bambina. Quando mia madre voleva castigarmi per qualche birichinata mi diceva -Stasera non vieni con noi – io piangevo.
I miei erano socialisti da sempre. Di mio padre, ricordo che aiutava molto in casa contrariamente alle abitudini dell’epoca che volevano l’uomo servito di tutto punto.”
Sono belli questi racconti dai quali traspare la Monza degli anni anteguerra, una Monza conservatrice che guardava con diffidenza i giovani che frequentavano il ricreatorio laico diretto da Ettore Reina, ma anche una Monza operaia e progressista che aveva mandato in Municipio ben due sindaci socialisti.
I primi anni del fascismo con il loro retaggio di minacce, intimidazioni, arresti, sono vissuti da Paola Giannella in prima persona.
In quel periodo si trovava a Bergamo dove era stata costretta a riparare con il marito che aveva sposato civilmente. In seguito tornata a Monza sfugge ad un arresto nel quale sono coinvolti molti compagni della Brianza, ma viene poi arrestata ad Intra , al cappellificio Albertini. Un particolare significativo: in questa circostanza è lo stesso direttore della fabbrica che l’accompagna alla carrozza e, davanti a tutti, le dice: “Signora, stia tranquilla e torni presto; qui ci sarà sempre un posto per lei”. Il giorno dopo le fa avere la sua busta paga con dieci lire più del dovuto.
Degli anni del carcere Paola ricorda le ansie, le paure, le sofferenze fisiche cometa fame, il freddo, un principio di tubercolosi ma anche la lealtà di alcune suore antifasciste del carcere di San Vittore e l’incontro con uno strano giudice che portava all’occhiello la “cimice” (era il distintivo del partito fascista).
Questo il dialogo: “Signora lasci perdere, stia a casa sua, non son tempi per fare politica. Vede questo distintivo? Sa che cosa significa? Ed alla risposta “partito nazionale fascista” scuote la testa e dice: “purtroppo non finisce”
Gli anni del confino: Lipari, Ponza, Sardegna, Basilicata, viaggi interminabili in treno e per mare, lunghe soste nelle stazioni, sguardi infastiditi della gente ma anche generosi gesti di solidarietà che scaldano il cuore. A Napoli, un ferroviere, saputo che era una confinata politica in viaggio di trasferimento, le rivolge a voce alta parole di simpatia e di incoraggiamento e nel frattempo le mette fra le mani un pacco di generi di conforto.
“Finalmente il 25 luglio 1943, il sig. Mussolini – così lo chiama ironicamente Paola Giannella – è costretto a lasciare il Governo. Verranno tempi durissimi, ma la gioia grande di quei giorni è stata e sarà indimenticabile”. Il fascismo, quel fascismo che sembrava dovesse durare in eterno, era finito.

Attualmente Paola Giannella vive tra Monza e Pegli in casa dei figli dove è di valido aiuto. Parla con affetto dei nipoti da buona nonna aperta e comprensiva. I giornali sono la sua lettura quotidiana ma ha anche letto i libri di Amendola, di Teresa Noce , di Lajolo, di Terracini.
È interessata a tutto ciò che riguarda gli aspetti politici e sociali del mondo d’oggi e ne discute con il figlio, consigliere comunale comunista. È una donna “viva”.

Testimonianza raccolta da Giovanna Meroni
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Maria Parma


“Da Hartheim, tristissimo castello di eutanasia, il suo uomo non fece più ritorno”
Si erano conosciuti ad una festicciola domenicale, lui suonava la chitarra e cantava le romanze con una bella voce da tenore.
Lei aveva iniziato a fare la guantaia a dieci anni.

MARIA PARMA, è nata a Monza, seconda di cinque fratelli settantuno anni fa.

“Mio padre era falegname e mia madre per arrotondare le entrate lavava la biancheria ad una famiglia di benestanti , erano i prestinai del cortile. All’età di dieci anni ho iniziato a lavorare come apprendista guantaia.”
“Conobbi tuo padre a sedici anni durante una festicciola domenicale. Lui suonava la chitarra e cantava le romanze con una bella voce da tenore. Solo in un secondo tempo mi disse che la sua famiglia era socialista. Il fratello maggiore, Carlo, perseguitato dai fascisti era stato violentemente picchiato. Durante il fidanzamento, durato sette anni , non ho mai avuto la certezza che collaborasse clandestinamente con il partito Comunista, ma da sposati ne ho avuto le prove”.
    Tu come la pensavi?
    “Avevo sempre molta paura”.
    - Lui cosa faceva?
    “Io sapevo che si incontrava con molti compagni. Andavano anche nei paesi a tenere delle riunioni”.
    - Eri credente?
    “Andavo a Messa prima che ci sposassimo. C’era un sacerdote che predicava bene a Santa Maria in Strada. Poi da sposata con i figli, la casa ecc. non ho più praticato”.
    Cosa ricordi degli scioperi del ’43?
    “Tuo padre mi diceva che di lì a qualche giorno ci sarebbero stati degli scioperi e lui era uno degli organizzatori. Nel suo reparto al “Campo volo” della Breda di Sesto S Giovanni, al suono della sirena delle dieci era convenuto che si fermassero tutti dal lavoro, ma nessuno ebbe il coraggio di farlo. Lui balzò prontamente sul tavolo e con un cenno deciso fece fermare tutti quanti. In seguito a questi fatti venne arrestato, processato con altri compagni ma fu il solo ad essere condannato. Prese un anno con la condizionale. Lui solo si assunse le responsabilità, non volle neppure essere difeso”.
    Cosa ti ricordi dell’incidente?
    “Dall’ospedale, una sera di novembre del ’43, telefonarono al prestinaio sottocasa e, senza precisare nulla, mi avvertirono di andare al Pronto Soccorso.
    Dopo aver affidato te e tuo fratello ad una vicina, con un triste presentimento inforcai la mia bicicletta e via. – Non preoccuparti, è una cosa da poco - mi disse sorridendo appena mi vide. In seguito gli venne amputata la gamba e fu sul punto di morire se Carlo, il fratello, non gli avesse donato il sangue”.
    Ma tu lo sapevi che trasportava con quel furgone le armi?
    “Sapevo che faceva questi frequenti viaggi dalla città alle montagne, ma non conoscevo altro, non mi diceva né quando, né con chi”.
    Tu hai sempre lavorato?
    “Certo che ho sempre lavorato, tranne i periodi delle maternità. Ho lavorato prima e dopo per farvi crescere”.
    Hai mai ospitato qualche partigiano?
    “Molte volte venivano a casa a mangiare ragazzi cosiddetti -sbandati- ma mai a dormire. La nostra casa era piccola, ti ricordi? Due stanze, una cucina e una camera da letto. Ricordo che regalavamo vestiti ed una volta anche un letto”.
    Hai conosciuto qualche personaggio?
    “Si riunivano raramente a casa nostra e se lo facevano era sempre quando la casa era vuota”.
    Cosa hai fatto quel giorno che lo hanno arrestato per la seconda volta?
    “Era marzo del ’44. Ero da poco rientrata dopo aver accompagnato tuo fratello Luigi all’asilo. Arrivano due poliziotti in borghese, mi riempiono di domande - Ha delle armi? - Dov’è suo marito? - e così via. Frugano in tutta la casa e non trovano nulla, neppure la foto di Marx che tuo padre aveva nascosto all’interno della specchiera. Non provavo paura, ero molto preoccupata per tuo padre. Ricordo come ci guardarono i vicini mentre salivo sulla jeep militare con te tra le braccia. All’invito di una donna di lasciarti a lei risposi di no, decisa, perché portandoti con me mi avrebbero rilasciata prima. L’interrogatorio durò qualche ora, sempre le stesse domande. Alla fine tu cominciavi ad essere stanca. Io, alzando il tono della voce e facendomi più decisa, dissi che dovevano smetterla. Mio marito era la persona più buona che io conoscessi a questo mondo. Infatti seppi poi che, mentre interrogavano me, in una stanza vicina a lui stavano facendo la stessa cosa”.
    Quando lo hai rivisto?
    “Grazie all’intervento di una cugina ho potuto rivederlo per un attimo la settimana successiva. E’ stata un’eccezione in quanto i prigionieri politici non potevano ricevere visite. Lo hanno poi portato a Milano alle carceri di San Vittore. Rivedo lo sguardo disperato che aveva dietro quello sportellino. Era affamato, aveva solo un filo di voce. La zia Maria che mi accompagnava, uscì a comprare del cibo che gli lasciammo grazie alla umanità di un giovane militare tedesco di guardia, che finse di non vedere”.
    Hai fatto altri tentativi per rivederlo?
    “Dopo qualche mese venne trasferito dalle carceri di Milano al campo di concentramento di Fossoli. Ben tre viaggi feci sempre in compagnia di qualcuno e sempre sotto i bombardamenti aerei che mi costringevano a scendere dal treno per nascondermi tra le siepi, nei campi. Non lo rividi più. Neppure quella notte che informata da Ivonne, una coraggiosa donna collaboratrice dei partigiani di Carpi, che era riuscita ad infiltrarsi nel campo mantenendo così i collegamenti con l’esterno, mi disse di stare pronta perché avevano organizzato un piano di fuga. Un aereo alleato, durante la notte, avrebbe dovuto sorvolare il comando del campo di concentramento e bombardarlo per permettere, nella confusione, la fuga ad alcuni internati. Fuori, nascosti, c’erano dei mezzi ad attenderli. Il piano fallì. Ogni mia speranza di riabbracciarlo cadde irrimediabilmente. Dopo due giorni venne spedito con molti altri compagni su un treno per Bolzano. Da lì nessuna notizia. Un giorno mi arrivò in una busta un biglietto scritto a matita da Enrico. Probabilmente lo aveva lanciato dal reticolato del campo o dal treno e venne raccolto da una buona persona. Nel biglietto mi chiedeva di inviargli dei documenti che comprovassero la sua invalidità. C’era la speranza che non lo avrebbero mandato nei campi di sterminio nazisti. Feci quanto mi chiedeva. Nessuna risposta. La mia angoscia crebbe. Lo vedevo debole, indifeso con le stampelle e quindi in grosse difficoltà. Scrissi anche al comando di Verona, ma tutto fu inutile. Venne mandato con altri sfortunati compagni a Mauthausen, po ad Hartheim, triste castello, centro di eutanasia da dove nessuno fece mai ritorno, neppure il mio Enrico”.

Maria Parma vedova Bracesco, oggi nonna felice di quattro nipoti è instancabile. Lavora ancora, divide la sua giornata dedicandosi alla casa della figlia Milena ed a quella del figlio Luigi.
Ogni anno, da sempre, partecipa al viaggio nei lager nazisti organizzato dall’Associazione Nazionale ex Deportati Politici di Sesto S G Monza.

Il Castello di Hartheim in località Alkoven, è stato con Hadamar, Grafeneck, Sonnestein, centro di eutanasia e ospedale sperimentale per i medici nazisti: vi hanno trovato una morte “scientifica” un imprecisato numero di vittime selezionate con cura, tra cui più di trecento italiani.
Si trova a pochi Km. Da Linz, immerso nel silenzio della campagna che degrada dolcemente verso il Danubio

Testimonianza raccolta da Milena Bracesco
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Matilde Parma


“'SOCCORSO ROSSO' è stato il suo campo d'azione nella lotta partigiana”
Matilde Parma ha guarnito cappelli per quarant’anni e poi ha preso le redini della famiglia del nipote rimasto vedovo prematuramente.

Invalida dal lavoro da oltre vent’anni, vive con il nipote Luigi figlio del caduto Enrico Bracesco, da nove anni. Nonostante la sua grossa difficoltà di camminare ha preso le redini della casa dopo la scomparsa della moglie di Luigi ed ha contribuito ad allevare ed educare i suoi due figli . Oggi ha settantatre anni.

Alla nipote Milena che l’ha intervistata, ha raccontato:
    “Appartengo alla generazione dei vecchi cappellai monzesi. Ho iniziato a guarnire cappelli all’età di tredici anni. Ho smesso dopo quarant’anni.”
    Come ti sei avvicinata al “Soccorso Rosso”?
    “Nel 1943, Enrico tuo padre, ed altri compagni mi affidarono l’incarico di portare dei volantini di propaganda antifascista alla Breda di Sesto. È stato quello un breve periodo in cui ho lavorato alla Breda poichè il cappellificio Cambiaghi di Monza aveva chiuso i battenti. Al mattino presto, prima che iniziasse il primo turno di lavoro, disposi i volantini ben in vista su tutte le trance del reparto.”
    Perchè l’hai fatto?
    “Me lo aveva detto tuo padre.”
    Sapevi che era rischioso?
    “Mi sentivo di aiutare i partigiani . Non mi piaceva che i fascisti imponessero la loro volontà su tutti. Sapevo che bruciavano i circoli famigliari, sapevo che davano da bere l’olio di ricino con la segatura a persone che io, conoscendole, consideravo oneste. Non mi piaceva la violenza che usavano contro chi non voleva tesserarsi al partito fascista. Nel ’43 avevamo i tedeschiin casa come alleati e, a differenza degli altri anni, non si poteva onorare il 4 novembre. Enrico mi diede un incarico delicato. La mattina del 4 novembre, con un gran mazzo di fiori mi recai ai piedi del monumento ai Caduti in piazza Trento e Trieste. Non c’era anima viva. Appoggiai la mia bicicletta al marciapiede e mi avviai con i fiori sulla scalinata del monumento. Ridiscesi dopo aver sostato un attimo in raccoglimento e un signore con cappello, grande e grosso, mi ferma. – Perchè ha messo quei fiori? – mi chiede. Io prontamente invento una storia - Ho due zii che ogni anno ricordo portando dei fiori – e do due nomi a caso. Questo tizio poi mi seguì per un tratto, ma io ero in bicicletta e lui a piedi. Riuscii a far perdere le mie tracce.”
    Hai avuto paura?
    “No, ero felice di aver compiuto un’azione contro i fascisti e i tedeschi che proibivano di onorare i Caduti della prima guerra mondiale. Non sapevo ancora che a Enrico era successo quel brutto incidente. In seguito andai all’ospedale a trovarlo ed appena mi vide, nonostante il dolore che stava sopportando, mi chiese se avevo portato quei fiori. Alla mia risposta affermativa, la sua espressione fu di gioia immensa.”
    In ordine di tempo, quali sono stati i tuoi compiti?
    “Dopo ho iniziato a portare regolarmente del cibo alle famiglie di quei partigiani che erano o prigionieri nelle carceri, o impegnati nella lotta armata sulle montagne. Visitavo, spostandomi sempre con la mia bicicletta, le famiglie Diligenti, Grilli, Colombo, Arosio, Redaelli, Pozzi, Nava, Messa, Bonacina e altre. Ricordo in particolare la signora Prina con le sue tre bambine felici di poter zuccherare il latte quando arrivavo portandone qualche etto.”
    Raccontami il tuo incontro con Elisa Sala.
    “Elisa... Ricordo che mi aveva cercata più volte. Un giorno ci siamo date appuntamento in Via Appiani e tentò di convincermi a seguirla in montagna. Lei doveva trasferirsi dal posto in cui operava e desiderava che io la sostituissi . Di Elisa mi colpì il fatto che fosse tanto giovane e tanto bella, molto intelligente e spigliata. Non l’accontentai, scelsi di rimanere in città a continuare con il “soccorso rosso”.
    Eri la sola a Monza che operava nell’assistenza?
    “Credo di si, ma non ci si conosceva. “
    “Il 25 Aprile del ’45 passando in bicicletta davanti alla stazione di Monza ricordo che vidi tanta gente che svaligiava i vagoni ferroviari di tutta la merce che i tedeschi in fuga avrebbero voluto portare in Germania. Capii che l’incubo stava per finire”.
Testimonianza raccolta da Milena Bracesco
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Elisa Pezzotta


“Appena adolescente, diffondeva la stampa clandestina”
La tragedia della giovanissima sorella deportata, innocente a Ravensbruk l’inferno delle donne, fu uno stimolo alla sua attività partigiana.

Elisa Pezzotta è una giovane donna di 57 anni nata a Urinano in provincia di Bergamo ma vissuta sempre a Monza nel quartiere di San Fruttuoso dove tuttora abita.
Nata nel 1926 e perciò bambina e adolescente durante il ventennio fascista, partecipò attivamente alla Resistenza facendo parte della 150° Brigata Garibaldi.
Di famiglia decisamente antifascista, il padre venne arrestato più volte, ebbe una sorella deportata a Ravensbruk tristemente conosciuto come l’inferno delle donne.
Il racconto di Elisa comincia con la caduta del fascismo, 25 luglio 1943. Di quei giorni ha un ricordo vivissimo: il discorso pronunciato da Gianni Citterio in piazza Trento Trieste di fronte ad un mare di gente. Elisa era lì, aveva quindici anni “sembrava straordinario - dice - dopo tanti anni di silenzio di sussurri, di clandestinità, poter esprimere a viva voce quello che si pensava - abbasso il fascismo, viva la libertà -.”
In settembre, ottobre - continua Elisa - si formarono a Monza i primi Gruppi Partigiani. Si raccoglievano fondi e viveri per le famiglie dei compagni più colpiti. La mia attività specifica era la distribuzione della stampa clandestina, soprattutto manifestini per i sabotaggi. Qui da noi si sabotavano molto i binari della ferrovia Monza-Como-Lecco di cui fascisti e nazisti si servivano parecchio. Il mio capo era mio padre che allora lavorava al laminatoio nazionale. Io lavoravo alla Motta panettoni come operaia e talvolta, di notte, facevo dei turni sempre in fabbrica, come crocerossina.
Di quei tragici mesi - dice Elisa - i ricordi sono moltissimi. Che dire? Tremendo fu il giorno in cui venne arrestata mia sorella Santina nel marzo del 1944. Aveva quattordici anni e lavorava alla Magneti Marelli di Crescenzago . Era l’unica della famiglia che non si interessava di politica. Venne fermata per strada e…..sparì.
Quando il Comune di Monza mandò a ritirare le sue carte annonarie capimmo che Santina era stata deportata. Per avere la conferma mio padre si recò alla Rondinella di Sesto dove c’era una caserma della Muti e lì vide sul registro il nome di Santina. Inveì contro i fascisti, li chiamò vigliacchi e traditori e corse il serio rischio di essere arrestato. Diciamo che fu salvato da un ufficiale tedesco che lo allontanò con la forza.
La famiglia si divise: mio padre nella clandestinità, io sempre a Monza presso una zia, mia madre e l’altra sorella a Bergamo.
Si tirò avanti così fino al 25 aprile 1945. -
Dei giorni della Liberazione Elisa ricorda benissimo la resa della Casa del fascio che allora era situata in piazza Trento e Trieste, dove attualmente c’è l’Ufficio delle Imposte.
“Da San Fruttuoso corremmo in piazza, eravamo tre ragazze su due biciclette.
Subito andammo nella cantina dello stabile e vidi proprio con questi occhi molte tracce di sangue e di materia cerebrale sui muri. Sicuramente lì erano stati torturati molti nostri compagni. Il nostro sdegno era enorme…. Ma bisognava prendere le armi e ritornare di corsa a San Fruttuoso dove i partigiani aspettavano.
Ai primi di maggio la famiglia si riunì.
Mancava sempre Santina. Malgrado tutte le ricerche fatte, di lei non avevamo notizie.
Ad ogni convoglio che arrivava si correva a vedere, a chiedere informazioni, ma…. Fino a settembre nulla di nulla.
Finalmente, un sabato sera, tornavo con mio padre da una assemblea, fui informata da un ex deportato che Santina era viva e stava per tornare. Arrivò infatti pochi giorni dopo. Era in condizioni disperate: magrezza spettrale, cicatrici in tutto il corpo, privazioni di ogni genere ma…..era viva!!
A San Fruttuoso si fece una grande festa all’unica donna del quartiere che tornava dai campi di sterminio.
Col ritorno di Santina la guerra mi sembrò davvero finita”.
Dopo la liberazione Elisa continuò a lavorare per dare il suo contributo alla causa.
Fu responsabile del Fronte della Gioventù Comunista, fu per lunghi anni membro della Commissione Interna prima alla Motta, poi alla Stamperia Donatello, fu responsabile dell’Unione Donne Italiane di San Fruttuoso e ricorda con tenerezza le belle bandiere cucite e ricamate per l’Associazione.
Attualmente, come è stato detto all’inizio, è una bella nonna di 57 anni con un marito, due figli, quattro nipoti e, come dice Elisa, una vita da pensionata.
Gravi motivi di salute (è invalida) l’hanno costretta ad allontanarsi dalla politica attiva ma la “passione” è sempre la stessa. Testimonianza raccolta da Giovanna Meroni
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Maria Riva Biffi


“Il sindacato è stato per lei una scuola di vita”
Si riunivano nei cascinotti in mezzo alla campagna per organizzarsi. Propagandista clandestina, la paura era la sua compagna inseparabile, ma quando era necessario sapeva tirar fuori le grinfie.

Mi aspettavo persone anziane, ripiegato sui loro “amarcord”, spettatrici distratte della scena quotidiana. Mi sbagliavo e di molto. Queste donne che hanno partecipato in modo diverso alla Resistenza, sono lucide e attive da far invidia, ancora oggi. Le esperienze vissute hanno maturato in loro una coscienza politica, sociale, culturale che ha contribuito sensibilmente a mutare il ruolo femminile nel nostro contesto storico. Dalle loro testimonianze personali affiorano i germogli dell’emancipazione della donna e nello stesso tempo emerge il lato più umano, più accessibile della resistenza raccontata. Queste considerazioni le ho ricavate durante il colloquio con la signora Maria, Maria Riva in Biffi, settantanove anni portati con sorprendente disinvoltura.

Mi complimento con lei per il suo aspetto fisico, per la vivacità del suo spirito. “Non mi scherzi, signora” mi risponde, ma il suo volto pacioso, coronato da ricci argentati, tradisce un certo compiacimento. Dura un attimo. Poi parte a spron battuto.

“Io non ho fatto galera, ne altro. Ho cominciato a lavorare a dodici anni in uno stabilimento tessile a Crespi d’Adda, a sedici facevo già la col lettrice per la lega sindacale. Ricordo che andavamo dal capo lega Malenti, proprio quello che Amendola nomina nel suo libro, a portare i contributi. Spesso veniva anche il sindacalista Cocchi Renato, altro personaggio del libro di Amendola, a tenere dei comizi e poi si andava a Bergamo a fare le manifestazioni. Al Renato cantavamo “Quando Renato sarai al Parlamento, noi avremo l’aumento”. Che tempi quelli!
    Perchè scelse l’attività sindacale?
    In casa mia si era tutti socialisti. Dopo la prima guerra mondiale c’era molta disoccupazione. Anche tre dei miei fratelli (in tutti eravamo in undici) reduci dal conflitto erano senza lavoro e naturalmente sentivano questo problema. Io mi interessavo e partecipavo ai loro discorsi. Nel 21 arrivò il fascismo e nello stesso anno diventammo tutti e quattro comunisti, dopo la scissione di Livorno”.
    Cosa accadde a Livorno precisamente?
    “Ci fu una separazione di fatto dai socialisti, cominciammo a fare riunioni separate. I fascisti bruciarono il nostro circolo di Trezzo subito dopo la marcia su Roma, il 28 ottobre del ’22.
    Fummo segnati a dito. I miei fratelli subirono molte violenze, manganellate e olio di ricino. Uno scappò a Monza.”
    Vuole raccontarmi qualcosa della sua vita sentimentale?
    “Conobbi mio marito nel ’26, anche lui comunista attivista.
    Collaborava con compagni di Vario d’Adda, certi fratelli Pomelli. Mi misi con loro. Facevamo le riunioni nei cascinotti in mezzo alla campagna. Io avevo il compito di distribuire la stampa clandestina: l’Unità, Ordine Operaio e altri volantini. Si profilava già l’asse Roma-Berlino”.
    Come diffondeva i messaggi clandestini?
    “Al mattino andavo in fabbrica molto presto, prima delle sei, e, mettevo i giornali sulle macchine tessili o negli spogliatoi.
    Ricevevo le istruzioni da Vera Invernizzi che periodicamente veniva a tenerci aggiornati sulla questione politica. Si diceva che fosse la moglie di Gaetano Invernizzi, ma non ne sono sicura. Aveva il volto deturpato da cicatrici. Pare che avesse avuto un incidente con la machina a petrolio”.
    Che diavoleria era?
    “Il fornello per far da mangiare in uso dopo che si aveva abbandonato l’uso dei camini. Ma torniamo alla storia. Nel ’32 mio marito ed io passammo una notte intera a distribuire volantini contro le elezioni di Hitler. La mattina ci fu una retata. Noi fummo fortunati, non ci presero.
    E in fabbrica come era la vita?
    “Cominciavano a guardar male tutti quelli che rifiutavano di iscriversi al fascio. Con me c’era una compagna, Clara, che mi aiutava a distribuire la propaganda. Con lei e le altre organizzammo uno sciopero, si era nel ’32. La caposala, una fascista che chiamavano la Foana perchè i proprietari erano i Foà, quando entrò in sala e vide il reparto fermo si mise a fischiare. Poi mi chiamò e mi disse – Lei è una sovversiva, gliela farò pagare. Quando uscirà dalla fabbrica verrà arrestata. – Le risposi – Mi faccia pure arrestare , ma prima le voglio spiegare il motivo del nostro sciopero – Maltrattamenti, sfruttamento e multe erano all’ordine del giorno”.
    Venne arrestata?
    “No . Mi fece chiamare dal direttore generale –Cosa hai fatto Riva – mi apostrofò . – Non è stata solo l’idea mia ma di tutte insieme – risposi . – Avrai delle rappresaglie – mi disse minaccioso. Non successe niente, ma fui tenuta sotto stretta sorveglianza.
    Ebbi un momento di pausa. Aspettavo un figlio. Mio marito che lavorava nella stessa ditta mi sostituì nella distribuzione della propaganda. Vi fu la crisi economica dello stabilimento e lui, che era tintore, si licenziò per andare come manovale alla Falk. Nel ’36 venimmo ad abitare a Monza e il lavoro clandestino riprese. Ci riunivamo in casa di compagni in via Cavallotti oppure a S. Martino in una vecchia trattoria nascosta tra le case. La paura era sempre la nostra compagna”.
    Aveva ripreso a lavorare?
    “Mio marito venne licenziato dalla Falk ed io dovetti rimboccarmi le maniche. Entrai alla tessitura Fossati Lamperti.
    “Senti questa che è bella” mi dice. Poi racconta
    “Chiesi lavoro per mio marito e il padrone lo assunse, ma l’ufficio di collocamento gli rifiutò il nulla osta perchè non era iscritto al fascio. È necessario essere iscritti al fascio per lavorare? – chiesi risentita al padrone Lui fece una telefonata e il nulla osta venne rilasciato. Per un pò rimasi calma. Ci diedero persino la casa.
    Fa una pausa e poi prosegue: “Nel ’43 dopo l’otto settembre, i fascisti fecero una retata al cinema Centrale e arrestarono parecchi giovani di diciassette- diciotto anni. Tra loro cìera anche mio nipote, Gianfranco Riva. Andai alla Villa Reale dove c’era la sede fascista e vidi questo ragazzo molto malconcio. Piangeva. – Con che autorità avete arrestato questi giovani? – chiesi. Mi risposero che erano degli sbandati . Rimase in prigione quindici giorni , ma io intanto preparavo la sua fuga. Avevo degli amici a Pontirolo, in una cascina come quella de “L’albero degli zoccoli”. L’hai visto il film di Olmi? No? Vi abitava una mia compagna con undici figli. Porta qui tuo nipote, mi disse – abbiamo posto e cibo anche per lui. - Una domenica sera riuscii a convincere i suoi carcerieri a farlo uscire a cena e non tornò più. Alle quattro del mattino mio marito ed io lo accompagnammo in bicicletta alla cascina di Pontirolo. Due giorni dopo vennero i fascisti a cercarmi in fabbrica . – dov’è suo nipote? Mi domandarono. – Non lo so – risposi – lo avevate in consegna voi. Bel modo di sorvegliare dei giovani sbandati! Aggiunsi. Perquisirono la mia casa da cima a fondo ma non trovarono i suoi vestiti che avevo nascosto sotto il carbone. Insistettero per sapere dove fosse , ma io, dura, non caddi nei loro trabocchetti. Infine si stancarono e mi lasciarono in pace. Gianfranco rimase a Pontirolo fino al ’45.
    Ogni tanto lo andavo a trovare. Ero curata dai fascisti ma non mi scoprirono mai.”
    La sig.ra Maria guarda l’orologio: “Mamma mia come l’è tardi! Devo andare, chissà cosa l’dirà el me Biffi. Il suo Biffi è il marito, ottantacinque anni, medaglia d’oro per cinquant’anni di iscrizione al partito Comunista”.
    È sempre così di fretta signora Maria?
    “Eh si, ho sempre tante cose da fare e non solo faccende domestiche. Adesso sto preparando la festa dei pensionati. È bello sentirsi ancora utili alla mia età. Ma anche questo incontro mi è piaciuto, grazie. È bello ricordare , mi sembra di ringiovanire”:
Testimonianza raccolta da Franca Meneghini
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Angela Ronchi


“L’unica volta che sparò si spaventò moltissimo”
È contraria a qualsiasi tipo di violenza. Si dedicò al sindacato ed alla causa antifascista con abnegazione rinunciando anche ai sentimenti privati.

Ho avuto con Angela Ronchi due brevi frettolosi incontri, se si considera quanti anni difficili e i molti ricordi abbiamo dovuto condensare in queste poche righe. Eppure il contatto è stato immediato e facile.
Angela dice subito, (come quasi tutte le donne incontrate che sono state attive nell’antifascismo) che non crede di aver fatto niente di speciale da trascrivere o registrare, ed io non posso che stupirmi della sua sincera modestia.
Racconta la sua esperienza in fretta, come per non farmi perdere tempo e nastro, (una parte dell’intervista è stata registrata) e penso a tutte le pagine e all’inchiostro sprecato intorno a stupide storie di divette e principesse scritte su rotocalchi che vanno a ruba. Con rammarico sintetizzo.
    Angela Ronchi è nata a Bellusco il 17 gennaio 1924 ed è venuta a cinque anni ad abitare a Monza nel quartiere di San Fruttuoso dove vive tutt’ora. Giovanissima sente crescere nella sua famiglia l’odio per il fascismo. Il padre socialista ed antifascista subisce percosse e soprusi, la madre partecipa agli scioperi per il miglioramento della condizione operaia. A quattordici anni ha la sua prima esperienza di lavoro in una fabbrica di tessitura, poi lavora alla Olap di Milano in un reparto di verniciatura, passa alla Magneti Marelli di Crescenzago. Lì si unisce ad un gruppo Socialista interno alla fabbrica che partecipa attivamente alla causa antifascista del quale facevano parte i compagni Lucchini e Stanghini . Nel 1943, a diciannove anni, viene arrestata con una giovanissima compagna per aver distribuito volantini contro il fascismo. Riesce, per la sua prontezza di spirito, durante l’interrogatorio a farsi rilasciare insieme alla sua compagna.
    È il 24 luglio 1943. L’indomani cadrà il governo Mussolini e dalla fabbrica vengono portati via i fascisti tra gli insulti ma, dopo l’otto settembre rientra alla Marelli il capo sezione che la farà licenziare in tronco.
    Sempre più convinta della necessità di avere un ruolo nelle organizzazioni antifasciste, prende contatto con compagni comunisti del suo quartiere a Monza e partecipa ad una riunione segreta a piazzale Libia dove si incontra con compagni operai della Breda , della Pirelli e della Magneti Marelli. Conosce Isa Romeo ed il suo compagno Romano, operaio della Breda e si incarica di portare volantini nelle fabbriche. “Passando in bicicletta – mi dice ridendo – ne buttavo sempre anche qualcuno dentro le scuole di San Fruttuoso dove erano acquartierate le milizie fasciste.”
    Poi assume il nome di battaglia di Anita Garibaldi. Anche qui sorride; questo nome, ricordo dei banchi di scuola, evocava in lei una figura di donna straordinaria per il suo tempo. Trova lavoro alla tessitura Rovelli di Monza dove era già stata e dove viene ben accolta. Porta avanti il suo compito di diffusione dell’idea antifascista tra le compagne di lavoro e, si adopera per raccogliere fondi da inviare ai compagni partigiani che agivano in clandestinità. A quel tempo ricorda di aver collaborato con Giuseppe Marelli e Achille Longoni.
    Angela ammette che la sua famiglia è stata molto importanteper la sua presa di coscienza e per la capacità critica nei confronti della società che la circondava. Nella tessitura le altre donne erano per la maggior parte molto impaurite e difficilmente partecipavano a scioperi o manifestazioni.
    Nell’atmosfera che si andava creando all’inizio del 1945, man mano che gli alleati sospingevano i tedeschi sempre più verso i confini, Angela si fa prendere dall’entusiasmo tanto da dire in un’assemblea agli operai che quell’anno il primo maggio si sarebbe festeggiato con le bandiere rosse. Una spia “fascista” la minaccia di denuncia, ma ormai nell’ambiente della fabbrica c’era chi temeva anche di esporsi troppo contro gli antifascisti. La spia, che era nota per la sua scarsa onestà, viene trovata con addosso della merce rubata e licenziata.
    Angela dopo qualche anno dà le dimissioni e il suo datore di lavoro le riconosce coerenza ed onestà elogiandola davanti a tutti.
    Angela mi racconta di un’altra volta in cui corse un serio pericolo. Mentre si recava a ritirare la stampa antiregime incontra il compagno Romano che l’avvisa dell’arresto di Isa Romeo e come venisse portata in giro con occhiali neri perchè non potesse con lo sguardo comunicare a chi incontrava di non avvicinarsi. Questa pratica, usata dai fascisti per arrestare più aderenti ad uno stesso Gruppo antifascista, era chiamata “civetta”. Era una vera trappola visto che l’arrestato era costretto a camminare lontano dai suoi carcerieri e sembrava essere libero. Isa Romeo viene torturata e messa nuda in frigorifero. In seguito viene liberata dai partigiani. Dopo la Liberazione diventerà Assessore al Comune di Sesto.
    Il 25 Aprile del ’45 , per Monza il 26 , Angela ricorda la felicità e la gran confusione. Ricorda l’orrore provato nel vedere il luogo di tortura e di morte che i fascisti avevano organizzato in piazza Trento e Trieste , il sangue frettolosamente asciugato con segatura e l’enorme stufa dove erano stati bruciati gli indumenti ed i resti dei partigiani che avevano avuto il tremendo destino di essere presi e portati sino lì. In questo luogo lei e le sue compagne Rosetta Pacchetti ed Elisa Pezzotta si erano recate per prendere le armi da portare ai partigiani che circondavano le scuole di San Fruttuoso dove ancora erano asserragliati molti fascisti che non credevano fosse la fine e tentavano una inutile resistenza.
    Angela e i suoi compagni dopo aver occupato le scuole, vi rimasero per dieci giorni ancora. Lei mi dice di essersi occupata del vitto, visto che, sebbene le avessero dato dei sommari rudimenti per l’uso delle armi, l’unica volta che sparò si spaventò òoltissimo. Angela dice “Io non saprei uccidere”.
    Parliamo un pò della sua vita di donna. Di come sia stata per lei molto amaro scoprire, dopo parecchi anni, che il ragazzo tanto amato fin da giovanissima e che era stato lontano, essendo arruolato nel sud, non tollerava la sua ttività politica e antifascista. Ciò la costrinse ad una scelta tra lui ed i suoi ideali politici. Scelta che fece dolorosamente giacchè troppo forte era in lei il senso della libertà.
    Molte rinunce, molti pericoli scampati, tante soddisfazioni, tanto entusiasmo. Anche lei , come tante donne attive in quel tempo difficile, ora dice: “Rifarei ancora le stesse cose.”
    Nel dopoguerra alla tessitura Rovelli, Angela fa parte della Commissione Interna e promuove iniziative a favore delle operaie anziane che vengono licenziate durante il periodo di crisi. Si decide così di inviare pacchi di viveri, legna, carbone ed altri generi di sostentamento.
    Passa allo scatolificio Isi di Monza dove viene assunta come aiuto magazziniere. Per rimanere vicina alle compagne rinuncia al lavoro in ufficio come impiegata (dove certamente avrebbe avuto vantaggi economici) giacchè questo le era parso un mezzo della direzione per impedirle di esprimersi più liberamente nella Commissione Interna per la difesa dei diritti degli operai. Angela viene continuamente ostacolata ed infine licenziata.
    A questo punto ricorda che nel ’48 , quando avviene l’attentato a Togliatti e la scissione dei sindacati lei diventa la segretaria del sindacato Tessili di Monza e lavora in questa organizzazione per un anno senza retribuzione. Ricorda anche di aver promosso un convegno dei tessili di zona in un periodo nel quale i sindacati erano latitanti, con la partecipazione di Teresa Noce, l’amministratore della CGIL di Roma, il compagno Nando Maggioni dei tessili di Milano. Naturalmente questa sua opera le dava grande soddisfazione anche se le costava, visto che queste attività erano malviste dai datori di lavoro.
    Angela oggi fa parte del consiglio di circoscrizione di Monza 4 dove rappresenta il direttivo dell’Asilo Nido di San Fruttuoso. Aiuta i pensionati e gli anziani del suo quartiere. Ha una vita famigliare serena. Il suo compagno , sposato civilmente nel ’55, anche lui attivo antifascista e partigiano, l’aiuta in casa e partecipa con lei alle riunioni del Consiglio di Circoscrizione. Ha allevato un figlio del quale è molto orgogliosa, Daniele perito chimico che lavora alla Pirelli ed è responsabile della Biblioteca di Cavenago. Assiste la madre molto anziana.
    Angela sostiene di aver maturato nel duro periodo della Resistenza un odio per la guerra e la violenza, è contro le armi nucleari da qualunque parte vengano e deplora che le donne non siano più attive nelle iniziative di pace.
Testimonianza raccolta da Aurora Belli
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Elena Vicari


“Un lungo pellegrinaggio per cercare il figlio diciassettenne”
Dopo molte peripezie venne a sapere che era morto da eroe gridando “Avanti, avanti”

Questa testimonianza mette in evidenza i sentimenti e le emozioni provate e sofferte da una donna, una delle migliaia di madri italiane, che visse la Resistenza non in prima persona ma attraverso la partecipazione e la morte di un figlio.
La donna è Elena Vicari, madre di Edmondo, morto a 17 anni, il 25 settembre 1944, nel combattimento di Gravellona Toce.

Elena Vicari mi mostra con commozione ed orgoglio il ritratto del figlio, le sue decorazioni, i diplomi al merito e, con molta tenerezza, le uniche due cartoline ricevute da lui ed un biglietto con queste parole:
“Cari genitori non state a pensare male di me; sto compiendo il mio dovere; sono arrivato bene, sto bene e non ho bisogno di niente. Un augurio a papà per San Giuseppe”.
Dopo quasi quarant’anni tutto è conservato con cura e affetto.
- “Mio figlio – dice Elena Vicari – lavorava alla Breda. Al campo volo. Era con Enrico Bracesco, Camisasca, Samiolo che, come lui , moriranno nella guerra di Liberazione.
Erano i suoi compagni , ma anche i suoi maestri. Noi non sapevamo nulla della sua attività politica, però Edmondo parlava di questi suoi compagni con molta ammirazione e rispetto. Una sera non tornò a casa. Allora abitavamo in via Gottardo dove mio marito aveva un negozio per la vulcanizzazione della gomma. Io trepidavo, era già passata l’ora del coprifuoco ed Edmondo non si vedeva... Non tornò quella sera nè mai più.
L’indomani mio marito andò alla Breda; seppe che Edmondo , con altri, si era licenziato. Era andato, come si diceva allora, “in montagna”. Era il marzo 1944.
Sono passati quarant’anni ma l’emozione sul viso della donna è visibilissima.
“Tenemmo la notizia segreta a tutti ed intanto ci davamo da fare per avere notizie. Sapevamo vagamente che era in Piemonte nella zona dell’Ossola. Giunse l’Agosto. Decidemmo di andare a cercarlo.”
La donna, aiutata dal marito, ricorda tutti i particolari di quelle due giornate. Le località dove si fermarono, Villa d’Ossola, Borgo Ticino, Omega, Forno, 84 km. A piedi in due giorni. E del tutto inutile. Edmondo non c’era in quelle valli, il suo gruppo si era trasferito altrove. Era vivo però e stava bene. Tornammo a Monza. Un giorno arrivò a casa nostra la polizia fascista. Voleva sapere ad ogni costo dove fosse nostro figlio. Fu così che mio marito finì in prigione per reticenza.
Ero disperata, mio marito in prigione e di mio figlio nessuna notizia. Il mio pensiero era sempre fisso lì, anche se andavo a lavorare, accudivo alla casa, allevavo gli altri due figli e ne aspettavo un quarto.
Il 30 settembre trovai infilato sotto la saracinesca del negozio un biglietto, mi si diceva con belle parole che mio figlio era morto. Il biglietto purtroppo era autentico, eppure la speranza non mi lasciava. Non so perchè , ma speravo sempre che qualche cosa cambiasse. Infatti, un giorno, presentatami in Comune per il ritiro di uno stato di famiglia, vidi che Edmondo risultava trasferito a Baveno. Mi sentii sconvolgere dentro. Con mio marito andai subito a Baveno. Ci indirizzarono all’Ospedale e lì seppi con certezza che mio figlio era morto e come era morto.”
La donna si ferma; l’antico dolore le oscura il volto. Riprende a fatica a raccontare ancora di Edmondo, del suo coraggio in combattimento.
“I suoi compagni – dice – lo chiamavano “Volante” perchè era sempre pronto a correre. Le sue ultime parole nel delirio furono: Avanti, avanti!”
Ora Edmondo Vicari riposa con gli altri 82 caduti nel Campo dei Martiri della Libertà in Cimitero a Monza.
“Quando venne portato nella sua città ed insieme agli altri gli vennero tributati solenni onoranze funebri cominciai a sentire un pò di pace.
Mio figlio era tornato a casa.”

Testimonianza raccolta da Giovanna Meroni
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Maria Vismara


“Seri granda, forta e spavalda”
Una staffetta Partigiana con una bella voce e senza paura. Andava a ballare al “Berin” per raccogliere preziose informazioni dai tedeschi.

Maria Vismara è nata a Triuggio nel 1913, unica femmina di cinque figli. La famiglia si è presto trasferita a Monza perchè i fratelli più grandi avevano trovato lavoro all’Hensemberger. Dal 1940 al 1950 Maria è stata operaia alla Breda di Sesto ed ha partecipato alla lotta partigiana come staffetta nella 108° Brigata Garibaldi.
Dal 1952 al 1972 ha lavorato per il Comune di Monza, prima come accompagnatrice di ragazzi handicappati alla scuola Tarra di Milano, poi all’Ufficio di Igiene. Ora è in pensione e vive con il figlio in una cascina del parco.
E’ una bella donna, alta, con grandi occhi scuri e capelli bianchi ricciuti raccolti con una forcina. Ha una grande carica di spontaneità ed allegria, le piace cantare con la sia bella voce limpida interrotta da improvvisi momenti di malinconia quando i ricordi si fanno duri e toccano la sua vita di donna.

Testimonianza raccolta da Silvia Lalia
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